Assandira

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Dopo una lavorazione molto lunga e complicata, l’ultimo lungometraggio di Salvatore Mereu è stato finalmente presentato quest’anno Fuori Concorso alla 77. Mostra del Cinema di Venezia.
Racconta la storia di Costantino, un anziano pastore sardo che ha appena perso il figlio a causa di un incendio scoppiato la notte precedente ad Assandira, l’agriturismo di famiglia. Sollecitato dal magistrato inquirente, Costantino prova a ricostruire quanto accaduto ripercorrendo la storia di quel luogo e i rapporti con il figlio e la nuora.

Tratto dall’omonimo libro di Giulio Angioni,
Assandira è un’opera molto suggestiva che segna un punto di svolta all’interno della filmografia del regista sardo. Infatti, se da un lato il film conferma le qualità di Mereu che già conoscevamo, in particolare il talento visivo e l’abilità nel dirigere gli attori, dall’altro si trovano qui elementi nuovi che vanno ad arricchire il suo cinema: la regia appare più controllata e meno aggressiva, lo sguardo di Mereu sa mantenere la giusta distanza dai personaggi, offrendo così alla storia un ampio respiro e significati che vanno oltre i fatti narrati.

Basta la prima sequenza, ambientata di notte sotto una pioggia scrosciante, per accorgersi di come
Assandira sia il frutto di una ricerca estetica molto accurata. L’unità di luogo, la storia è ambientata quasi esclusivamente all’interno dell’agriturismo, non pregiudica una certa varietà e ricchezza nella messa in scena, tanto che ogni sequenza è associata ad un ambiente diverso della casa. L’edificio subisce nel corso del film una serie di trasformazioni radicali: da antico rudere abbandonato diventa un agriturismo chic e infine uno scheletro architettonico irrimediabilmente danneggiato dall’incendio, in un percorso tragico inesorabile che pare viaggiare parallelo a quello dei protagonisti.

L’attenzione particolare rivolta ai luoghi del racconto non impedisce a Mereu di soffermarsi, attraverso numerosi primi piani, sui volti dei suoi personaggi, tutti molto intensi a cominciare da quello misterioso e magnetico di Gavino Ledda, vera anima del film. A questi volti Mereu affida dialoghi bruschi ambigui e spesso violenti, attraverso i quali emerge uno dei temi cardine del film, ovvero la difficoltà di comunicazione tra le persone. Costantino Mario e Greta dialogano continuamente nel corso del film eppure sembrano non capirsi mai. Una distanza linguistica e quindi culturale che si ripresenta nei dialoghi tra il magistrato e Costantino, tanto che in più occasioni il primo si trova costretto ad ammettere: “Costantino, io proprio non la capisco”.

“Fare il pastore non è un gioco, nemmeno da bambini è un gioco. A me lo dicono, che sono stato portato via da scuola per fare il pastore”. Nelle parole di Costantino è evidente il riferimento all’esperienza biografica del suo interprete Gavino Ledda, scrittore poeta e pastore sin da piccolo. Più tardi nel corso del film il personaggio di Greta, la moglie di Mario, risponde alle parole del suocero rivelando una visione completamente diversa del progetto Assandira: “Costantino, tu non capisci. Tutto questo è un gioco. (Assandira) è sempre stato solo un gioco”.

Emerge da questo scontro dialettico l’altro tema importante del film, ovvero la critica mossa a una certa idea di accoglienza turistica che sembra essersi diffusa in Sardegna. Una visione che, suggerisce Mereu, non ha saputo valorizzare il patrimonio culturale dell’isola ma anzi ha favorito la semplificazione e la mercificazione delle antiche tradizioni sarde per inseguire fini esclusivamente economici. Emblematiche in questo senso le due scene con gli animali, quella ambientata nell’ovile e quella all’aperto con i cavalli, nelle quali Mereu conferma la propria abilità nel gestire le sequenze più drammatiche, alle quali sa conferire una tensione sotterranea e impalpabile.

Nonostante l’evidente critica al settore turistico, al regista non interessa tanto fare un film di denuncia. Il suo obiettivo sembra piuttosto quello di indagare l’animo umano e i demoni che lo abitano, i sogni e i desideri reconditi, le paure le vergogne e i sensi di colpa. E rispetto ai suoi film precedenti trova qui uno sguardo più duro e meno compassionevole, che non lascia spazio all’ironia tipica di altre sue opere. C’è un’isola da salvare, sembra dirci Mereu. Ma prima dobbiamo salvarci da noi stessi.


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