Magic in the Moonlight

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Uscito nelle sale italiane lo scorso 4 dicembre,
Magic in the Moonlight è l'annuale fatica del quasi ottantenne Woody Allen. Racconta una storia molto semplice che ruota attorno al tema della magia e dello spiritismo, tema già presente in altre opere del regista quali Scoop (2006) e La maledizione dello scorpione di giada (2001).
Il protagonista del film è Stanley interpretato da Colin Firth, sempre a suo agio nei panni di personaggi dall'anima profondamente british. Stanley è un celebre prestigiatore inglese che durante i suoi spettacoli indossa eccentrici abiti cinesi ed è conosciuto dal suo pubblico col nome di Wei Ling Soo. Un suo amico e collega di lunga data lo convince a trasferirsi momentaneamente nel sud della Francia per tentare di smascherare con la sua esperienza la giovane Sophie (una tentacolare Emma Stone), ragazza che pare dotata di incredibili poteri di preveggenza.
Tecnicamente il film è come al solito ineccepibile grazie al lavoro di fidi collaboratori quali il direttore della fotografia Darius Khondji (richiesto da registi del calibro di Michael Haneke e David Fincher) e la costumista spagnola Sonia Grande. Anche il lavoro di scenografia è nel complesso convincente a cominciare dal suggestivo teatro di inizio '900 in cui si svolge la prima sequenza del film, quando Stanley mette in scena uno spettacolo di magia cinese, probabile citazione della celebre scena di
La signora di Shanghai (1947) di Orson Welles. Per il resto, si tratta della solita ambientazione da cartolina tipica del Woody Allen in trasferta europea, con l'eccezione di alcune trovate particolarmente riuscite come il bel planetario nel quale i due protagonisti trovano riparo durante il temporale.
In
Magic in the Moonlight Woody Allen affronta per l'ennesima volta il dubbio esistenziale che ha raccontato in forme diverse in decine di film precedenti ovvero lo scontro tra ragione e sentimento. Stanley è l'ennesimo personaggio alleniamo afflitto da infelicità cronica derivante da un approccio esclusivamente razionale nei confronti dell'esistenza: è lo stesso problema di Peter, personaggio di Settembre (1987), di Cliff Stern (Crimini e Misfatti, 1989) o di Marion (Un’altra donna, 1988) (al riguardo, rimandiamo ad un articolo apparso su schermiavapore). A ben guardare, anche Blue Jasmine (2013) mette in scena, sebbene in chiave ben più tragica e radicale, due individualità antitetiche sotto questo punto di vista: Jasmine e la sorella Ginger.
Si tratta senza dubbio di un tema particolarmente caro non solo al regista ma anche all'uomo Woody Allen, come conferma una sua dichiarazione rilasciata tempo fa: "
La gente si rovina la vita per l’incapacità di gestire i propri sentimenti, nonostante sia estremamente produttiva nel lavoro intellettuale, impegnata nelle iniziative sociali e caritatevoli. Forse (su questo argomento, nda) nessuno ha più sensi di colpa di me” (1). Stanley e Sophie rappresentano l'ennesima interpretazione alleniana di quella che resta, a giudicare dal senso ultimo di Magic in the Moonlight, una questione cruciale per l’artista e ancora irrisolta.
Archiviato frettolosamente come un Woody Allen minore, secondo la tendenza diffusa e fuorviante di classificare i film del regista in grandi e piccoli,
Magic in the Moonlight ha la colpa di essere una semplice commedia romantica. Eppure quest’anno non sono state molte le commedie americane comparabili a questa per ritmo, grazia, ironia dei dialoghi e qualità della recitazione. Si sta ancora molto bene al cinema quando c’è Woody Allen, cullati da una serie di sensazioni piacevoli appena contrastate dalla solita inguaribile amarezza di fondo che permane, nonostante il finale, anche dopo i titoli di coda.

Note:
(1) Questa riflessione è tratta da un’intervista al regista riportata in Conversazioni su di me e tutto il resto, di Eric Lax, Bompiani 2010.
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