The Look of Silence

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Presentato in anteprima mondiale alla 71. Mostra d'arte cinematografica di Venezia dove ha vinto il Gran Premio della Giuria,
The Look of Silence è il secondo lungometraggio del regista americano Joshua Oppenheimer.
Il film fa parte di un unico lungo progetto che il regista ha dedicato all'Indonesia e ad un periodo tragico della sua storia: le stragi avvenute negli anni '60 compiute dall'esercito indonesiano, appena salito al potere, contro tutti gli abitanti accusati di essere filo-comunisti. Se il suo primo lungometraggio, The Act of Killing, analizzava la vicenda dal punto di vista degli autori di quelle barbarie, The Look of Silence racconta la storia delle vittime e in particolare di Adi e della sua famiglia, persone che hanno vissuto sulla loro pelle gli orrori di quegli anni: il fratello maggiore di Adi infatti fu torturato e ucciso dall'esercito indonesiano e dai suoi seguaci. Adi guida lo spettatore in questo viaggio nella memoria intervistando alcuni degli artefici di quel genocidio in cui morirono all'incirca un milione di indonesiani. Molti degli autori di quelle violenze godono ancora di posizioni di potere all'interno del sistema politico indonesiano. Adi chiede loro di ricostruire dettagliatamente le dinamiche degli omicidi, incluso il racconto terribile della morte del fratello: essi raccontano soffermandosi sui dettagli più terribili senza nessun apparente segno di rimorso per quanto accaduto. Il film di Oppenheimer si sofferma a descrivere anche l'ambiente familiare in cui vive Adi: la madre, donna segnata dal lutto eppure ancora estremamente lucida e vitale, il padre centenario che, ormai incapace di intendere e volere, è seguito e curato dalla moglie con grande affetto, e la nipote, figlia di Adi che il regista immortala in affettuosi momenti domestici, uniche parentesi di serenità all'interno di un film duro e ricco di tensione.

Ciò che interessa al regista non è tanto la ricostruzione storica dei drammatici eventi, né tantomeno le cause politico-sociali che contribuirono a creare quella terribile situazione. Il regista americano compie con
The Look of Silence uno studio approfondito e originale sulla psiche umana e sui meccanismi che generano il male negli individui. È un film sul senso di colpa o, per meglio dire, sulla sua mancanza: tra i momenti più forti del film, gli attimi di silenzio in cui i carnefici, intervistati da Adi che ricorda quanto da loro compiuto anni prima, cercano invano una risposta che permetta loro un'impossibile giustificazione. Il regista filma in primo piano il volto degli assassini per cercare, forse invano, nei loro occhi un segno di pentimento che le parole però non raccontano.
Tutti nel villaggio hanno deciso di dimenticare: gli aguzzini tacciono per comodità e per la propria serenità, i parenti delle vittime tacciono per paura e per il dolore mentre i pochi sopravvissuti, come l'amico di Adi che scampò incredibilmente al massacro, tacciono perché dimenticare è la soluzione ultima per sopravvivere.

Ma il silenzio del film è soprattutto quello delle vittime, che il regista definisce "
come (…) silenzio generato dal terrore, (il film) è una poesia sulla necessità di rompere quel silenzio, ma anche sul trauma che si produce quando il silenzio è stato rotto". A rompere quel silenzio ci pensa Adi, uomo di grande coraggio e di profonda umanità, oculista di professione che ha tra i suoi pazienti anche alcuni artefici di quel genocidio di cui fu vittima il fratello. Sono momenti carichi di simbolismo quelli in cui Adi cura lo sguardo degli assassini, tiene in vita gli occhi di chi ha rovinato la vita della sua famiglia, occhi rimasti gli unici testimoni di quella violenza che Adi ha scelto coraggiosamente di riportare a galla.

The Look of Silence è un alternarsi di sguardi e di suoni, di ricordi visivi e uditivi. Il linguaggio, la (in)capacità di ascoltare e di ascoltarsi, la violenza delle parole che diventa insostenibile nei racconti degli aguzzini, più cruenta e toccante di qualsiasi immagine: The Look of Silence è anche un film sui sensi che appartengono all'uomo, sulla loro forza evocativa, in particolare la vista e l'udito entrambi citati nel titolo del film.

Nel modo con cui sceglie di indagare i meccanismi della psiche umana e l'origine del male, per il coraggio delle interviste e per come riesce ad inserirle abilmente in un contesto ambientale molto caratterizzato e affascinante, il cinema di Oppenheimer ricorda da vicino quello di Werner Herzog, qui presente in veste di produttore del film. Mentre guardavo
The Look of Silence son tornato con la mente a Echi da un regno oscuro (Echos aus einem düsteren Reich, 1990), film scioccante di Herzog incentrato sulla figura di Jean-Bédel Bokassa, ex-dittatore della Repubblica Centro Africana.

Altro elemento caratteristico del cinema di Oppenheimer è la cura formale delle sue opere: la macchina da presa è silenziosa, spesso fissa o comunque priva di movimenti bruschi; la fotografia è estremamente curata sia nelle scene d'interni che negli spazi all'aperto. Un gusto estetico molto personale che ovviamente si nota maggiormente nei (rari) momenti di relativa distensione del film, quelli in cui l'urgenza filmica era minore e in cui probabilmente il regista ha avuto più tempo per curare anche l'organizzazione degli spazi filmati. Si tratta soprattutto delle scene d'interni nella casa della famiglia di Adi, in cui l'estrema semplicità e povertà degli ambienti contrasta efficacemente con la luminosità dei colori, delle vesti della madre di Adi o del verde accecante della natura che circonda il villaggio. È il contrasto visivo di cui parla anche un soldato americano in un documentario d'epoca mostrato nel film: come ne
La sottile linea rossa o in Nobi, il recente film di Shinya Tsukamoto presentato quest’anno a Venezia, la violenza dell'uomo ci appare ancora più incredibile e surreale quando prende forma in mezzo all'incanto della natura.
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