L'atelier

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©TeodoraFilm


L’atelier è l’ottavo lungometraggio del regista francese Laurent Cantet, presentato l’anno scorso al Festival di Cannes all’interno della sezione Un Certain Regard.

Piuttosto singolare che il nuovo film di un regista francese già vincitore di una Palma d’oro (2008, La classe), non passi per il concorso ufficiale. Eppure è molto bella quest’ultima opera di Cantet, ambientata a La Ciotat nel sud della Francia, dove un piccolo gruppo di studenti guidati dalla scrittrice Olivia (Marina Foïs) partecipa ad un workshop per la stesura di un romanzo. I rapporti tra gli studenti si fanno problematici soprattutto a causa di Antoine (Matthieu Lucci), giovane asociale e dalle idee molto radicali.

Molto curato esteticamente,
L’atelier si caratterizza sul piano visivo per la netta contrapposizione tra scene ambientate all’aperto, illuminate dalla luce accecante del sole estivo, e altre molto buie nelle quali i personaggi, Antoine in particolare, somigliano a ombre indefinite che si muovono nella notte. Un contrasto che non è solamente visivo ma al quale corrisponde sul piano narrativo un diverso stato emotivo dei personaggi. Le scene di luce sono quelle che raccontano l’atelier, il momento più vitale e creativo nel quale i ragazzi, pur tra mille discussioni, tentano di collaborare per dare forma al loro romanzo. In questi momenti nasce lo scontro dialettico tra Antoine e gli altri, Olivia in particolare, la cui resa dei conti avverrà, come in un vecchio western, solo al calar del sole. Le sequenze notturne sono quelle in cui si sviluppa l’elemento narrativo del film, la parte “di finzione” come l’ha definita lo stesso Cantet: sono i momenti in cui i tormenti di Antoine, i suoi istinti violenti prendono forma. Una di queste scene, quella in cui Antoine costringe Olivia a seguirlo di notte fino al mare, è girata in modo magistrale e resta impressa nella memoria grazie anche al lavoro del direttore della fotografia Pierre Milon che riesce a catturare in modo straordinario il chiaro di luna.

Questa è la parte più sorprendente di
L’atelier, e rappresenta per certi versi una novità nella filmografia di Cantet. L’altra parte del film, quella che racconta le dinamiche di gruppo all’interno del workshop, è strutturata secondo un modello cinematografico che è diventato un marchio di fabbrica del regista. Qui Cantet si conferma ancora una volta maestro nel dare ritmo e spessore ai dialoghi, mantenendo come sempre la parola al centro del suo cinema. Al riguardo, in occasione di un’intervista rilasciata a Slant Magazine, Cantet rivela alcuni interessanti aspetti del suo metodo di lavorazione. Come Abdellatif Kechiche, l’altro grande cantore contemporaneo dell’adolescenza francese, anche Cantet tende a filmare ogni scena per intero, lasciando recitare gli attori anche per dieci, quindici minuti senza interruzioni. Alle prese con sequenze di tale durata, è normale che gli attori, spesso non professionisti, non rispettino alla lettera i dialoghi previsti dalla sceneggiatura. Ma ciò non rappresenta un problema per Cantet, che anzi crede fermamente in questo metodo perché permette ai suoi attori di immedesimarsi completamente nel ruolo. L’estremo realismo dei dialoghi è ottenuto anche grazie all’utilizzo di più macchine da presa contemporaneamente, metodo che permette agli attori di recitare i propri dialoghi all’interno di una vera discussione, avendo sempre l’interlocutore di fronte a loro.

Diversamente dal cinema di Kechiche, che non cerca mai di capire l’adolescenza quanto piuttosto di entrarci, di viverla dall’interno, Cantet ha uno sguardo più distaccato, come un osservatore che si interroga sul perché delle parole e dei gesti dei suoi giovani protagonisti. Come in
La classe, anche qui lo sguardo del regista è filtrato attraverso gli occhi di un personaggio adulto, la scrittrice Olivia, vero e proprio alter ego del regista. Prima ancora delle differenze sociali, economiche o delle questioni razziali, il dramma nel cinema di Cantet nasce da un conflitto generazionale che vede l’adulto spettatore di un tempo che non riconosce più. È il dilemma del tempo presente, incarnato nei volti degli studenti, un presente incomprensibile per Olivia che tenta disperatamente di coglierne il senso studiando il personaggio di Antoine. Ma è anche il tempo passato, quello che riguarda la storia di La Ciotat e di quello che fu un enorme cantiere navale, una storia che Olivia vorrebbe recuperare e inserire nel romanzo ma che Antoine, come molti altri studenti, ignora e non intende approfondire.

Il conflitto tra le generazioni è anche un conflitto tra la parola, tanto cara a Olivia, e le immagini, di cui si nutrono voracemente gli adolescenti del film, che siano di fronte a un computer, a uno
smartphone o a un videogioco. Eppure, nel finale il regista lascia intravedere un barlume di speranza: forse all'interno del processo creativo esiste un momento in cui la parola e l’immagine si ritrovano, e le generazioni finalmente si toccano.
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