Les ogres

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©Pyramide Films

Presentato lo scorso anno al Rotterdam International Film Festival dove si è aggiudicato il Big Screen Award, e poi alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ottenendo sia il Premio del pubblico che quello come Miglior film del concorso, Les ogres racconta le vicende del Davaï Théâtre, una compagnia francese di teatro itinerante alle prese con uno spettacolo tratto da Čechov.
La giovane regista francese Léa Fehner, qui al secondo lungometraggio dopo il sorprendente esordio Qu'un seul tienne et les autres suivront (2009), sceglie di raccontare una storia fortemente autobiografica ambientata in un mondo che ha conosciuto in prima persona, avendo vissuto con i suoi genitori all'interno di una compagnia di teatro itinerante.

Il risultato è un film importante che ricorda il cinema di Laurent Cantet per l'intensità dei dialoghi, quello di Robert Guédiguian per l'umanità dei suoi personaggi, Abdellatif Kechiche per la tensione delle immagini e del montaggio, Guillaume Brac e Alix Delaporte per il poetico romanticismo della narrazione. E forse non è un caso se Brac e Delaporte condividono con Léa Fehner, oltre a un certo stile registico, anche la formazione professionale avendo tutti e tre studiato presso la scuola nazionale di cinema francese, La Fémis.

Il film si basa su una sceneggiatura solida e originale, molto precisa e già ricca di dettagli, come ha affermato la regista in
una recente intervista. Scritta da Léa Fehner assieme a Catherine Paillé e Brigitte Sy, la sceneggiatura è caratterizzata da un ritmo travolgente e dalla mancanza di tempi morti. I numerosi membri della compagnia teatrale vengono presentati soprattutto attraverso l'interazione con i loro colleghi, in una successione di sequenze ad alta intensità emotiva. L'obiettivo dichiarato è quello di sorprendere lo spettatore pur senza abbandonare quella sensazione piacevole di realismo e forte credibilità che si respira per tutto il film. Le sequenze impostate su questo doppio registro sono numerose: basti citare la scena in cui M. Déloyal sorprende la propria compagna a letto con un giovane ragazzo, o ancora quella in cui M. Déloyal mette in scena una tragicomica asta per accaparrarsi i servigi della povera Marion. Si tratta di sequenze dall'esito sorprendente, quasi surreale eppure stranamente coinvolgenti e credibili nella loro evoluzione drammatica.

Ciò avviene grazie alla forza dei dialoghi, inseriti in discussioni urlate e frenetiche, sempre imprevedibili. Anche nelle poche scene potenzialmente a rischio di retorica, come quella in cui François spiega a Mona la sua personale visione della figura paterna, o ancora quella in cui M. Déloyal va a trovare la sua ex compagna, le sceneggiatrici riescono a trovare le parole giuste per dare alla sequenza un carattere unico, tenendosi alla larga dal rischio di
déja-vu.

La sceneggiatura di
Les ogres stempera opportunamente la tensione violenta dei rapporti umani con una giusta dose di ironia. Ciò accade, per esempio, nella sequenza in cui un furioso François, il direttore della compagnia, scrive all'esterno della propria roulotte a caratteri cubitali "Mia moglie mi tradisce". L'ironia prende il sopravvento anche nella lunga sequenza della rissa al bar, estrema per durata e numero di persone coinvolte, la cui tensione drammatica è smorzata dalla presenza di 24 mila baci di Celentano in colonna sonora.

Les ogres è anche un film d'attori che ha richiesto interpretazioni di grande intensità. Léa Fehner ha riunito un cast eterogeneo composto in parte da attori con cui già aveva lavorato nel suo film d'esordio. Ha avuto inoltre la brillante idea di affidare ruoli chiave ai propri genitori e alla sorella, tutti attori professionisti, accentuando ulteriormente la componente autobiografica del progetto. Accanto a loro, una sempre intensa e vitale Lola Dueñas e un imprevedibile, disilluso Marc Barbé. Tutti sono chiamati a interpretare personaggi sinceri e istintivi, che accumulano sbagli e dicono frasi di cui presto si pentono in un micro mondo, quello del teatro itinerante, in cui tutti rimangono se stessi, anche quando recitano.
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