Mektoub My Love: Canto Uno

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Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia dove è stato accolto da pareri discordanti, Mektoub My Love: Canto Uno conferma ancora una volta l’unicità del cinema di Abdellatif Kechiche,
la straordinaria sensibilità e precisione con cui racconta il dialogo tra gli esseri umani, sia esso fisico o verbale, nelle sue mille sfumature.

Prima parte di una trilogia che il regista spera di completare a breve,
Mektoub è ambientato negli anni'90 e narra la storia di Amin, giovane aspirante sceneggiatore che lascia momentaneamente Parigi e torna a Sète, nel sud della Francia, per trascorrere le vacanze assieme agli amici d'infanzia. Sarà un'estate intensa per i giovani protagonisti, travolti da un'irresistibile curiosità nei confronti dell'altro, da un'attrazione fisica e emotiva a cui non potranno e non vorranno rinunciare.

Da un punto di vista stilistico
Mektoub mantiene tutte le peculiarità dei film precedenti di Kechiche, se possibile accentuandole ulteriormente: il film è strutturato su una serie di sequenze di eccezionale lunghezza, ambientate ciascuna in uno spazio fortemente caratterizzato dal punto di vista estetico (la casa di Ophélie, il ristorante di famiglia, la fattoria, la discoteca) e popolato da numerosi personaggi (Amin e i suoi amici) che interagiscono fra loro attraverso dialoghi frenetici e molto frammentati. Proprio i dialoghi, raccontati sempre in modo così dettagliato e realistico, sono diventati negli anni l'elemento stilistico più rappresentativo del cinema di Kechiche. La loro forza sta in due elementi principali: il ritmo della scena (e quindi il montaggio molto dinamico e ricco di stacchi) e la naturalezza della recitazione. Entrambi questi elementi dipendono da una tecnica di regia molto particolare, adottata con consuetudine da Kechiche e raccontata in modo molto interessante da Marco Graziaplena, direttore della fotografia di Mektoub. In una recente intervista per badaste.it, Graziaplena ha sottolineato come le singole sequenze di Mektoub siano state filmate per intero con un unico lungo ciak, una sorta di piano sequenza che coinvolge contemporaneamente diverse macchine da presa e numerosi punti di vista. Ogni operatore di macchina si sofferma su un singolo elemento della scena, che sia il primo piano di un volto oppure un campo medio che mostra tutti i personaggi, e resta su quel dettaglio fino alla fine della sequenza. Si può facilmente intuire come un singolo ciak possa durare molto a lungo, anche diversi minuti. Un modo di filmare piuttosto rischioso, soprattutto per le sequenze ambientate in spazi piccoli con mobilità ridotta, che si presta a numerosi imprevisti, non ultimo l'eventualità che gli operatori di macchina si filmino a vicenda (rischio evidenziato dallo stesso Graziaplena in occasione della suddetta intervista). Tuttavia si può facilmente immaginare come questo metodo agevoli il lavoro degli attori, meno soggetti a interruzioni e tempi morti, il tutto a vantaggio della libertà della recitazione e dell’immedesimazione col personaggio, e garantisca una maggiore possibilità di scelta in fase di montaggio.

Il tempo è quindi l'elemento chiave del cinema di Kechiche. Il tempo dell'attesa innanzitutto: si narra che sul set di
Mektoub il regista posticipasse sovente l'inizio delle riprese, in attesa della luce giusta per illuminare i corpi e i volti dei suoi protagonisti. Un'attenzione alle luci e ai colori che non c'era nei suoi primi film e che, come lui stesso ha ammesso, si è fatta più importante da La vie d'Adèle in poi. Kechiche non attende solo la luce giusta, ma anche la frase propizia, l'espressione adatta. Filma a lungo i suoi attori aspettando che qualcosa accada: una frase, un gesto, qualcosa che dal caos conduca alla poesia e che il montaggio poi potrà ricordare. Attesa e speranza: se letto in questa chiave, Mektoub è il film più vitale, più positivo di Kechiche. Perché qui la lunga attesa si giustifica nella magia a cui conduce, come nell'emblematica sequenza del parto della pecora. Ma è un'attesa vissuta dal regista e dai suoi attori, non dallo spettatore a cui invece Kechiche dedica solo il presente, il qua e ora, una lunga serie di entusiasmanti momenti magici. Proprio in questa dicotomia il cinema di Kechiche trova il suo senso più alto: cinema che nasce dall'elaborazione intellettuale e dalla paziente attesa, per sfociare nell'irruenza istintiva di un ballo, di uno sguardo fugace, di un rapporto amoroso.
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