Phantom Phread

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©universalpictures.it

“Hitchcock gira scene d’amore come fossero scene di omicidio e scene di omicidio come fossero d’amore”.
Il regista americano Paul Thomas Anderson cita questa frase di François Truffaut per rispondere alla domanda di uno spettatore su come andrebbe diretta una sequenza romantica. Una frase che Anderson deve aver tenuto ben presente durante la scrittura del suo nuovo film, Phantom Thread, uscito in Italia la settimana scorsa col titolo Il filo nascosto e che racconta la storia di Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis), un apprezzato stilista inglese degli anni ’50, e di Alma (Vicky Krieps), sua giovane musa e compagna.

Girato in pellicola 35mm,
Phantom Thread è un film di qualità tecnica superiore, realizzato con la stessa maestria e delicatezza che il protagonista dedica alla preparazione dei suoi abiti. La fotografia, per la prima volta curata personalmente dallo stesso regista, ricorda quella di altri suoi film precedenti per l’assenza di forti contrasti tra luci e ombre, sostituiti da una luce bianca e diffusa che immerge le figure umane nello spazio circostante, come fossero parte integrante della splendida scenografia (di Mark Tildesley). Il montaggio è delicato, quasi impercettibile, e in alcuni momenti le immagini perdono consequenzialità per adattarsi al ritmo ammaliante della musica. La colonna sonora è scritta per l’occasione dal fedele Jonny Greenwood e si basa soprattutto sull’uso di archi e pianoforte. Rispetto al precedente There Will Be Blood, qui le musiche hanno un ritmo meno incalzante e più dilatato, adattandosi perfettamente all’atmosfera ovattata del film. La macchina da presa si muove dolcemente all’interno della casa-laboratorio, che è la scenografia principale di Phantom Thread, soffermandosi con numerosi primi piani sui volti dei protagonisti, sulle mani e sui dettagli dei vestiti, persino su alcuni piatti cucinati da Alma per Reynolds.

Phantom Thread è strutturato in tre parti principali: l’inizio racconta l’incontro tra i due protagonisti, la parte centrale mostra la loro vita insieme e le problematiche che ne emergono, mentre la terza parte propone una curiosa e inattesa svolta al loro rapporto. La parte iniziale conferma la tesi del noto critico americano Mick LaSalle il quale, nella sua recensione di Phantom Thread, sostiene che non c’è miglior regista di Anderson per filmare l’inizio di un film. È Alma ad introdurre lo spettatore nella storia raccontando con un lungo flashback l’incontro con lo stilista. La sequenza che mostra la loro prima notte assieme, nella quale Reynolds progetta per lei il primo vestito fino al disturbante arrivo della sorella Cyril (Lesley Manville), possiede una forte sensualità e riesce a trasmettere allo spettatore tutto il fascino e allo stesso tempo l’ambiguità di quell’incontro.

Una sequenza in cui emerge uno dei temi centrali del film e di tutto il cinema di Anderson, ovvero la condizione di soggezione/suggestione subìta da un individuo ad opera di un altro, una situazione che appartiene a tutti i rapporti umani e in particolare a quelli più intimi e profondi. “Tu sembri molto forte” esordisce Alma durante il loro primo incontro. “Lo sono”, risponde freddamente Reynolds. In fondo tutto il film ruoterà attorno a questo delicato rapporto di forze. Già al centro di opere precedenti quali
There Will Be Blood e The Master, questo tema assume in Phantom Thread una dimensione più intima e romantica, meno adatta a interpretazioni di carattere sociale e politico.

“Scegliamo gli abiti che indossiamo perché crediamo che possano aiutarci a superare la giornata.” Questo è il curioso e interessante commento che Paul Thomas Anderson ha rilasciato in occasione di
un’intervista a The Guardian. Infatti il film è anche una riflessione molto originale sul rapporto tra forma e contenuto, laddove la prima non è più lo specchio del secondo, ma piuttosto uno strumento per modificarlo, per cambiare l’anima delle cose e delle persone. Anderson non va oltre la forma perché crede fermamente in essa.

In un film impressionante sul piano visivo e ulteriormente nobilitato da grandi prove attoriali, qualche piccolo difetto è riscontrabile sul piano puramente narrativo. La parte centrale, ad esempio, insiste un po’ troppo nel sottolineare le idiosincrasie di Reynolds e le infinite sopportazioni di Alma. Il punto di svolta tanto atteso arriva in ritardo e appare forse un po’ debole se non nel suo significato (i rapporti umani sono basati su condizioni così estreme che anche l’equilibrio che le mantiene in vita non può che essere altrettanto pericoloso) quantomeno nella sua messa in scena, di chiara matrice hitchcockiana. Dei due protagonisti, il personaggio più complesso e sfaccettato è senza dubbio quello di Alma. Reynolds invece ci appare immobile nella sua diffidenza ed egoismo. Un’analisi più approfondita del processo creativo che sta alla base della sua arte, avrebbe forse giovato.

Si tratta di piccoli difetti che mi fanno preferire altre opere del regista americano,
The Master su tutte, ma che nulla tolgono alla grandezza e all’importanza di questo film e del cinema di Anderson nel suo complesso.
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