The Old Man & the Gun

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The Old Man & the Gun
è il quinto lungometraggio del giovane regista americano David Lowery ed è soprattutto il film che segna il ritiro dalle scene di un grandissimo attore di Hollywood.
Protagonista sin dagli anni ’60 di una lunghissima serie di classici americani, nonché regista di film impegnati e di grande successo, Robert Redford ha avuto tra i molti meriti anche quello di saper scegliere con accortezza e intelligenza i ruoli che hanno caratterizzato l’ultima parte della sua carriera. Non fa eccezione quest’ultimo The Old Man & the Gun, film la cui sceneggiatura è ispirata ad un articolo del The New Yorker che racconta le incredibili gesta criminali del vecchio Forrest Tucker, personaggio realmente esistito. Pur non privo di difetti, il film ha il merito di offrire a Robert Redford un’ultima grande interpretazione e un’uscita di scena degna della sua eccezionale carriera.

Regista talentuoso e apprezzato dalla critica, Lowery conferma con questo film di essere un abile direttore di attori, con una naturale predilezione per le scene più intime nelle quali prevalgono i dialoghi e l’uso dei primi piani.
In alcune recenti interviste il regista ha raccontato la propria passione per le scene ambientate nei dine, i tipici caffè americani, luoghi che da sempre nutrono l’immaginario cinematografico statunitense. Al riguardo Lowery cita come riferimenti le celebri sequenze di Heat - La Sfida, Buffalo ’66 e ovviamente Pulp Fiction. Possibile anche l’influenza del cinema di Jim Jarmusch, rievocato qui nella bella scena in cui il personaggio di Tom Waits, seduto al bancone di un bar, ricorda con la sua voce impossibile un episodio della sua infanzia. Proprio all’interno di un caffè sono ambientate le sequenze più importanti e più belle del film, e in particolare quella iniziale in cui Forrest (Robert Redford) e Jewel (una grandissima Sissy Spacek) fanno conoscenza.

Abile nel cogliere con un primo piano i particolari di un volto e l’intensità di uno sguardo, Lowery mostra minor sicurezza nel dirigere le scene d’azione. Gli inseguimenti in automobile sono piuttosto fiacchi e le numerose rapine in banca vengono riproposte secondo uno schema narrativo che può apparire ripetitivo. Altro aspetto che non convince appieno è la parte del film dedicata a John Hunt, il poliziotto che indaga sul caso Tucker interpretato da Casey Affleck. Il personaggio di Hunt ruota attorno a un tema classico del poliziesco americano, e cioè il fascino ambiguo che la figura del criminale esercita sul poliziotto che lo insegue. Per Hunt, poliziotto stanco e demotivato, la cattura del criminale non è più solo un obiettivo professionale ma diventa una ragione di vita tanto che spera, inconsciamente, di non catturare mai il suo alter-ego. Ma il rapporto tra i due personaggi non viene mai approfondito in modo adeguato (il regista è evidentemente interessato soprattutto al rapporto tra Jewel e Forrest) e di conseguenza la parte dedicata a Hunt risulta poco interessante oltre che slegata dal resto della storia.

In un film pervaso da un profondo sentimento di nostalgia per il cinema classico, le citazioni cinefile sono davvero innumerevoli e spesso divertenti. Si comincia con i titoli di testa che riprendono l’incipit di
Butch Cassidy di George Roy Hill (“Not that it matters, but most of it is true”), passando da Strada a doppia corsia di Monte Hellman (il film che Forrest e Jewel vedono al cinema) e La caccia di Arthur Penn (nella bella sequenza che ripercorre le molte evasioni compiute da Forrest Tucker) fino a La stangata (quando Hunt incontra Tucker si tocca il naso con un dito, come facevano Newman e Redford nel celebre film del ’73). Omaggi appassionati e sinceri nei confronti dell’ultimo gigante di Hollywood che ha deciso, lui sì, di cambiare lavoro.


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