The Rider

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©CAVIAR et HighwaymanFilms


Presentato sabato scorso alla Quinzaine des Réalisateurs,
The Rider è il secondo lungometraggio della regista statunitense Chloé Zhao, che segue l’apprezzato esordio Songs My Brothers Taught Me, anch’esso alla Quinzaine qualche anno fa.

The Rider racconta la storia di Brady, giovane campione di rodeo costretto a abbandonare la sua passione a causa di un grave infortunio alla testa.

Diciamolo subito:
The Rider è uno dei film più belli visti a Cannes quest’anno. Tra i suoi molti pregi c’è innanzitutto l’originalità del soggetto: una piccola storia che appartiene a un’America lontana e sconosciuta, che a Hollywood interessa poco. È l’America del South Dakota e del rodeo, una pratica che in quella regione supera la semplice connotazione sportiva e diventa un elemento culturale fortemente identitario.

In questo contesto Zhao dà vita a una storia semplice e lineare che parla però di molte cose: di amicizia, di rapporti familiari, di malattia e della fine dei sogni. Soprattutto,
The Rider riesce come nessun altro film prima d’ora a svelare il rapporto profondo, a tratti misterioso, che può legare un uomo al suo cavallo (eccezionale in questo senso la sequenza dell’addestramento).

Il film è tecnicamente molto curato sotto ogni punto di vista. Campi lunghi che immortalano lo spettacolo delle
badlands si alternano a primi piani che indagano i volti dei protagonisti, uomini e cavalli, e delle loro ferite. L’immagine è stabile, ferma, e quando la macchina da presa si muove è sempre fluida, fortunatamente priva di fastidiose vibrazioni tanto di moda oggi, ma così poco adatte ai ritmi di questa storia. D’altronde la giovane regista ha mano sicura e si capisce che sa bene quel che vuole. Ha scelto con grande attenzione alcune immagini cruciali, che restano nella memoria dello spettatore e spiegano più di mille parole. Come la mano ferita di Brady, che si chiude a pugno senza controllo, contro la sua volontà, e che diventa un’immagine esemplare dell’impotenza di fronte alla malattia.

Quello di Zhao è uno stile controllato e asciutto che però non ostacola l’emozione, tutt’altro. Agendo per sottrazione, Zhao riesce a creare momenti di grande commozione che nascono lentamente, emergono dalla narrazione in modo naturale ma potente, tanto che dopo la proiezione al Théâtre Croisette non erano pochi gli spettatori commossi.

Eppure Zhao sceglie di non sottolineare l’emozione, di non enfatizzarla. Esemplare in questo senso la sola scena in cui padre e figlio si abbracciano, filmata non a caso in campo lungo, senza primi piani. Come accade sempre nel grande cinema, quando è lo spettatore ad entrare nella storia e non viceversa.

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